Gian Enzo Sperone collezionista. L’omaggio del Mart al grande gallerista.
Articolo di Helga Marsala - 31 Dicembre 2023 - Artribune.com
Il museo Mart di Rovereto espone, per la prima volta in Italia, parte della sconfinata collezione di opere e oggetti d’arte del gallerista Gian Enzo Sperone. Un tributo necessario. Una mostra spettacolare, per conoscere un altro volto di una figura internazionale.
C’è un passo, nel primo capitolo de L’uomo senza qualità, che Musil usa come pretesto narrativo per tratteggiare il complesso profilo psicologico del protagonista. Ulrich si trova nella “piacevole situazione” di dover rimodernare la palazzina che aveva preso in affitto. Il piacere procuratogli dalla dilettevole occupazione si sarebbe però tramutato presto in un’impasse: “dalla ricostruzione rigorosa fino alla libertà più completa, egli disponeva di tutte le soluzioni, e allo stesso modo si offrivano alla sua mente tutti gli stili, dall’assiro al cubista. Che cosa scegliere?”. Ed è l’inizio del naufragio. Quali oggetti, mobili, quadri, tessuti avrebbe preferito? Quale stile? Cosa lo avrebbe rappresentato al meglio? Come non restare sempre prigioniero di “pregiudizi, tradizioni, difficoltà e limitazioni”? Decise allora di non accontentarsi dell’esistente, ma di progettare da sé gli arredi perfetti: “Finì così per non immaginarsi altro che stanze irrealizzabili, ambienti girevoli, arredi caleidoscopici, diversivi per l’anima, e le sue idee diventarono sempre più povere di contenuto. Era finalmente arrivato al punto verso il quale si sentiva attratto”. L’epilogo corrispose a un abbandono dell’impresa, per quell’”uomo senza qualità” a cui nulla sembrava appartenere e che al comune senso di realtà sostituiva il senso dell’infinita possibilità, tra idealismo e disincanto, utopia e distacco dalle cose: “La vita di questi uomini della possibilità è tessuta, si potrebbe dire, con un filato più sottile, un filato fatto di fumo, immaginazione, fantasticherie e congiuntivi; quando un bambino manifesta una simile tendenza, gliela si fa passare con metodi energici e, davanti a lui, quegli individui vengono definiti visionari, sognatori, codardi e saccenti o criticoni”.
Sperone, Collezionista per vocazione.
Non può essere casuale la scelta, certamente velata di ironia, di un titolo così impegnativo per la personale dedicata dal MART a Gian Enzo Sperone (Torino, 1939), influente gallerista torinese, da sempre attivo sulla scena newyorchese, divenuto nella seconda metà del secolo scorso figura di punta dell’art system internazionale, qui omaggiato nelle sue vesti di grande e infaticabile collezionista. Non un caso, innanzitutto, perché Sperone, uomo colto, geniale, elegante, fuori dagli schemi, proprio dall’amore per la letteratura e la poesia era partito, frequentando dopo il liceo classico la facoltà di Lettere – abbandonata per un lavoro alla Olivetti – e presto appassionandosi all’arte: “Nel 1957 uscirono le prime traduzioni italiane di Foglie d’erba di Walt Whitman, quelle poesie in una prosa alta in cui cantava sé stesso (“I sing my self”) e di On the road di Jack Kerouac. Fu una sorpresa, forte e sicuro preludio per il mio conseguente amore per la cultura e la pittura americana: così se presto divenni un promotore dell’arte Pop, Minimal, Conceptual e Land Art lo devo a quelle letture”. Così racconta in un bel testo pubblicato all’interno del catalogo della mostra (ediz. Silvana), nata da un’idea di Vittorio Sgarbi e curata da Denis Isaia con Tania Pistone.
Ma è proprio la sua personalità poliedrica, questo immaginare ed abbracciare tutto senza sosta, che trasforma il titolo – scelto dallo stesso Sperone – in un richiamo sottile alla natura di un personaggio letterario anticonvenzionale, libero, controverso, alle prese con il senso dell’indeterminatezza, intellettualmente sedotto da tutti i “possibili” del mondo. Personaggio, tuttavia, figlio di un decadentismo ormai lontano, con il baratro spalancatosi tra i due conflitti mondiali: Sperone vive un tempo differente e non saranno certo l’inazione, l’assenza di posizioni nette, la perdita di aderenza alle cose, a definirne il passo. È dunque breve il passo dall’amore per Sandro Penna e Whitman alla fascinazione per le arti visive contemporanee. Lasciato il lavoro in azienda si reinventa tirocinante presso la galleria Galatea di Mario Tazzoli, punto di riferimento per la scena artistica cittadina. È l’inizio di un’avventura che durerà una vita intera. Diventa amico di due giovani artisti promettenti, Aldo Mondino e Michelangelo Pistoletto, e conosce il lavoro di giganti come Bacon, Giacometti, de Chirico, Kandinskij, Savinio. “La collezione per ora è scarna – racconta Denis Isaia in un approfondito saggio – almeno quanto il portafoglio. Si segnalano solo due vasetti impero in legno di mogano comprati per 500 lire al Baloon, il mercato delle pulci di Torino”. Quella fame, in realtà, arrivava da lontano: “Ho cominciato giovanissimo a sentire il richiamo del raccoglitore seriale e ho iniziato a catalogare pezzi di quarzo, ossi di seppia (anche quelli di Montale), aculei di istrice, farfalle, maggiolini e coleotteri, alcuni dei quali avevano deciso di venire a morire sul davanzale della mia finestra, una specie di Wunderkammer”.
La mostra dedicata a Gian Enzo Sperone
Ideato dallo studio Atelier Remoto, l’allestimento al Mart è coinvolgente, intelligente, scenografico, scandito dall’audace accostamento tra verde acido e fucsia, e articolato per sezioni mediante enormi quadrerie, seducenti accrochage di materiali eterogenei, cortocircuiti linguistici e temporali. Un bastimento di 400 opere, databili tra il XIV secolo e i giorni nostri, per una mostra che ripercorre la vita di Sperone, leggendo il suo amore per l’arte attraverso un’incredibile compulsione al possesso, alla catalogazione, alla raccolta di immagini e oggetti d’arte d’ogni sorta. Tutti speciali, pensati, studiati, evidentemente scelti per la loro singolarità, non certo per un mero interesse d’investimento o per aggiungere una firma in più al prestigioso elenco. Vincente la decisione di mischiare il più possibile, lasciando che lo storico e il contemporaneo diventino una voce sola, vertiginosa e mai didascalica. Approccio critico e curatoriale particolarmente sentito da Sgarbi, che scrive: “Sperone collezionista ha compreso che un’opera del IV secolo avanti Cristo non è antica, è moderna. È lo schema che era già nella mente di Gino De Dominicis che, nei suoi paradossi, diceva che gli antichi siamo noi: un artista di 2500 anni fa ha esattamente 2500 anni in meno di noi, è lui il più giovane”. E deve averne avuto parecchio, Sperone, di fiuto per gli affari e pragmatismo, visti i risultati raggiunti in termini di prestigio e di autorevolezza. La sua prima galleria, a Torino, la apri nel ’63 con una mostra di Lichtenstein, e la tenne attiva fino all’1981, mentre faceva la spola tra l’Italia e gli USA, dove collaborò con fondazioni, gallerie, istituzioni, contribuendo al successo internazionale delle nuove frontiere della ricerca artistica italiana. Tra il 1966 e il 1967 aprì una sede a Milano con Graziano Ghiringhelli e nel 1972, mentre apriva anche a Roma con Konrad Fischer, inaugurava finalmente a New York, prima da solo, poi dal’75 in società con Fischer stesso e con Angela Westwater: tutt’oggi attiva, la Sperone Westwater Gallery ha sede dal 2010 in un edificio progettato da Norman Forster sulla Bowery.
Nel mentre, proseguiva la febbrile attività di collezionista, mettendo insiemi pezzi d’arredo del ‘700, busti marmorei, capolavori del futurismo e del surrealismo, gioielli d’arte orientale, arte sacra, straordinari ritratti d’epoca, e un’infinità di nomi, stili e linguaggi del contemporaneo. In mostra si corre da Pablo Picasso a Peter Halley, da Wim Delvoye a JulianSchnabel, con approfondimenti su tutti i movimenti che Sperone sostenne, tra l’Italia e l’America: la Pop Art, con Warhol, Schifano, Tano Festa, la Transavanguardia di Cucchi, Chia, Clemente, Paladino, De Maria, e ancora il Minimalismo, l’Arte Povera, la Land Art, il Concettualismo, qui rappresentate da splendidi pezzi di Boetti, Paolini, Kosuth, Long.
Focus e quadrerie: la mostra su Sperone
Sorprendente e inattesa la parete che accoglie una serie di tavole, trittici, pannelli a fondo oro, rappresentazioni religiose che arrivano dalle botteghe di maestri del Trecento e del Quattrocento italiano. E subito, con un balzo traumatico, lo spazio-tempo si contrae e insieme si frammenta, aprendo raffinate parentesi novecentesche, come quella dedicata ad alcuni pregevoli esperimenti futuristi di Giacomo Balla, o come quella sull’astrazione, in cui un meraviglioso concetto spaziale di Lucio Fontana, sintesi di graffi e aperture dal sapore arcaico, convive con gli schemi, gli equilibri e i cromatismi piatti di Veronesi o Reggiani, con una piccola accumulazione di Arman, e più in là con il candore di Harp, la purezza acromatica di Manzoni e con una delle stupefacenti carte stropicciate simulate dalla pittura a olio di Corrado Cagli.
Due le grandi quadrerie: una sul tema del ritratto, l’altra in cui prolificano narrazioni, mitologie e allegorie d’ogni tempo. Non si contano i capolavori, dai piccoli disegni agli imponenti dipinti, passando da ‘600 di Luca Giordano e Sofonisba Anguissola a Mimmo Rotella, Mirò, Licini, Funi, Carrà, Pirandello, e ancora decine e decine di finestre sulla storia. Costellazioni in cui smarrire lo sguardo, per rintracciare infinite possibili rifrazioni.
Stesso impatto spettacolare per il gruppo di teste schierate su due strutture frontali, a formare un’unica installazione intitolata alla contaminazione e all’azzeramento di categorie storiche, critiche, stilistiche. Senza soluzione di continuità, si fa slalom tra una marmorea testa di Imperatore del II sec d. C., il policromo Busto dell’Arma del ’96 di Luigi Ontani, le scorie industriali in ceramica del fantoccio di Bertozzi & Casoni, il seicentesco volto muliebre di Rondoni, l’effige di Paride scolpita nel 1830 da Ferdinando Fontana, o i volti di due aristocratici in terracotta di Francesco Orsy (XVIII sec.).
Ancora grandi raccolte, riunite in focus estesi ed imponenti, per la sezione sull’India, che include 60 preziosissime miniature, databili tra il XVI e il XVIII secolo, accostate a due imponenti Schnabel del 2007 – ritratti sfavillanti di Shiva, intitolati all’amico e maestro di Yoga Eddie Stern – e per l’importante capitolo sulle incisioni, profluvio di segni, solchi, dettagli infinitesimali, in cui spostarsi con lentezza tra capolavori di Dürer, Piranesi, Goya, Von Müller e molti altri.
Chi era Gian Enzo Sperone
Figlio del boom economico post bellico e delle migliori energie culturali, economiche, creative, esplose tra gli anni ‘60 e ’70, Sperone insegue dunque passioni autentiche, su cui costruisce un impero a suon di fiuto, strategia ed empatia, non senza crisi, cadute, momenti difficili. Concretezza da vendere, e anche un carico di intelligenza emotiva e di sensibilità che ha fatto la differenza, in particolare nel dialogo umano e intellettuale intrattenuto con gli artisti, compagni di strada, di lavoro, di ricerca. Ma quel turbinio di suggestioni, quella tensione onnivora verso tutto il bello possibile, e in tutte le accezioni possibili del bello, quell’utopia dell’accumulo, dell’inclusione entropica, quell’essere visionari e sognatori fino all’estremo limite del reale, resta la cifra più intrigante attraverso cui leggere questa immensa collezione di opere d’arte, una specie di manifestazione infinita ed incompiuta di quell’ontologia del possibile che Musil investigò nel suo romanzo. E se uno sconfitto Ulrich – tornando alla metafora iniziale – affidò infine a un qualunque fornitore d’arredi i destini della sua abitazione, Sperone accettò invece la sfida del suo caleidoscopio interiore, continuando a fantasticare, ad accumulare, a costruire stanze, pareti, collezioni nella collezione. Una mirabolante raccolta declinata al congiuntivo, più che all’indicativo. Il modo del “possibile”, per l’appunto.
Un modo e un tempo, per paradosso, percepito anche come occasione di silenzio, di raccoglimento. Tutto il rumore di quell’immenso intreccio di epoche, stili, colori, linguaggi, sguardi, gesti, scritture, è in realtà, per questo straordinario businessman con l’aspetto di un dandy e le finezze di un poeta, lo spazio intimo, quasi religioso, del contatto con sé, benché quel sé sia sempre stato un’entità plurale, indomita, mutevole. Questo diventava la pratica del collezionare: una chance per fabbricarsi il proprio universo esclusivo, interrompendo le corse e le logiche del mercato e della società dello spettacolo: “La scoperta del silenzio e, perché no, dell’autoisolamento, mi ha fatto capire che è un errore farsi fagocitare dalla necessità di spiegare, coinvolgere, propagandare con ogni mezzo: arriva il momento in cui è più salutare occuparsi delle proprie suggestioni. E cosa erano diventate le mie aspirazioni? Costruire le premesse per uscire dalla routine del gallerista al servizio degli altri e cominciare a esplorare un mio mondo. Sfuggire alla tirannia del nostro tempo, dell’eloquio continuo per farsi udire e apprezzare: costruire un museo silenzioso su misura, una chiesa dove essere al riparo dalle insidie del mondo e dove non c’è alcun officiante. Ecco dove si va a parare”.
Il celebre Tentativo di volo di Gino de Dominicis, geniale poesia in forma di performance e di documento video, conclude il percorso espositivo, con quel potere rivoluzionario dell’idea, della volontà, del desiderio, racchiuso nell’utopia di un’azione impossibile, che l’arte sposta sul piano dell’inesauribile possibilità. Un’ultima dedica a un uomo che ha abilmente camminato tra storia e attualità, continuando a spostare in avanti l’orizzonte. E qui i versi di Walt Whitman tornano a risuonare, con immutata esattezza: “Il passato e il presente appassiscono – io li ho colmati e svuotati / E procedo a riempire la mia prossima piega del futuro”.