La Sindrome di Stendhal non esiste. Ma l’arte ci aiuta a dialogare col sacro.

Mark Rothko, No. 9 (White and Black on Wine), 1958. Glenstone Museum, Potomac, Maryland © 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko

Articolo di Domenico Ioppolo - 24 Novembre 2023 - Artribune.com

L’arte e il senso del sacro nell’opera di Rothko, in mostra alla Fondazione Louis Vuitton di Parisi. E la relazione con l’attualità sempre più complessa che il mondo ci chiede di affrontare

È il 20 gennaio del 1817, quando, stando alla seconda edizione del suo Rome, Naples et Florence, Stendhal arriva a Firenze e visita Santa Croce. Qui, lasciato solo nella cappella del Volterrano si sente quasi stordito e all’uscita, in preda ad una emozione che riunisce le sensazioni celestiali dell’arte e dei sentimenti, ha un attacco di tachicardia che lo porta a sedersi su una panchina dove rilegge i Sepolcri. Nasce così la famosa sindrome. In realtà questo racconto sembra essere più una ricostruzione romanzata che reale, anche perché nella prima edizione dei diari non c’è traccia di questo evento e Firenze viene definita “volgare”. Insomma, la più importante manifestazione psicologica di fronte ad un’opera d’arte a cui tutti aspiriamo, per poter manifestare la nostra sensibilità, è molto probabilmente una “invenzione” e non c’è mai stata. Del resto, anche la morte di Bergotte davanti alla Veduta di Delft, meno nota ma per certo più decisiva, è figlia di un errore. “Le petit pan de mur jaune” non c’è. Forse dovremo abituarci ad una lettura meno emotiva e rassegnarci a visioni meno eroiche del nostro rapporto con l’arte.

Mark Rothko, No. 21, 1949. The Menil Collection, Houston. © 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko

Rothko alla Fondazione Louis Vuitton di Parigi

Erano queste le riflessioni che rimuginavo tra me e me mentre stavo osservando Blu and Gray del 1962 e n 14 del 1960 alla retrospettiva su Rothko alla Fondazione Louis Vuitton di Parigi, pensando appunto che la Sindrome di Stendhal non esiste ma se esistesse quelle sarebbero fra le opere in grado di provocarmela.
“Ho sempre dipinto tempi”, è ciò che dice Rothko della sua pittura, e lo si percepisce già nella prima sala della mostra, quando ancora era evidente una tendenza figurativa che poi, dopo l’opera n 17 del 1949, lascerà lo spazio all’astrattismo. E proprio nella prima sala della mostra appaiono i due fondamenti del Tempio, quello classico, greco, del mito, ben evidente nella figura del Minotauro dell’opera La famiglia e quello della cultura ebraica nelle immagini della Metropolitana. L’occidente si da come fusione di questi due filoni culturali che trovano nel Tempio l’icona rappresentativa. Ma cos’è il Tempio, greco o ebraico che sia? È il luogo in cui è “contenuto” il Sacro, ma la parola contenuto non ha il significato moderno di deposito ma semmai quello di “contenere” ossia limitare, isolare, rendere meno pericoloso. Il Sacro è la parte oscura della nostra vita, la follia, l’indicibile, ciò che non può essere visto o rappresentato, pena restare folgorati. Il solo che può avvicinarlo, a prezzo di grave pericolo e nella impossibilità di dirlo in maniera comprensibile, è lo sciamano, il profeta, l’oracolo. 

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