Dall'uovo al sangue, vita e morte di Claudio Cintoli

Cosa spinse un artista come Claudio Cintoli - uno che fa capolino da dietro un uovo neanche fosse un pulcino, in un bianco e nero delicato e aurorale - a gettare poi la faccia nel sangue mestruale di una donna in una performance tutta colori accesi, dolore e morte? Probabilmente l' urgenza di ripercorrere e precorrere le fasi estreme dell' esistenza. In un corpo a corpo tra arte e vita che significa anche continui cambi di direzione nei linguaggi, uno spostarsi e sporcarsi al solo fine di sfuggire alle etichette e ai begli esiti formali di una mano eccezionalmente felice. Tanto travaglio e tormento, solo «per essere se stesso a ogni costo». Il disegno iperrealista con l' uovo di struzzo e con il punteruolo di acciaio dell' Autoritratto con acuto del 1972, e l' installazione Aceldama, il campo del sangue, realizzata nel 1975 coinvolgendo il fotografo Pino Abbrescia, sono le opere che aprono e chiudono l' antologica dedicata dal Macro di Roma (fino al 2 settembre) all' artista di Recanati che nella capitale ha svolto la parte più importante della sua carriera: dal 1958 degli esordi nella scia dell' informale al 1978, anno della morte improvvisa e del meritato invito alla Biennale di Venezia. Curata da Daniela Ferraria e da Ludovico Pratesi l' esposizione mette in ordine cronologico circa 40 lavori. È vero, la simultaneità in un pugno di anni di opere che vanno dal polimaterismo di marca informale ( Maggiordomo del 1964), a una pittura che guarda ai media ( Maternità vietnamita, 1966), ai ready-made del 1969 (i Pesi morti fatti di corde, sassi, cemento), danno l' impressione di un frenetico oscillare tra suggestioni materiche, pope poveriste. In realtà, la barra dritta Cintoli l' ha sempre tenuta in quel suo andare tra le onde delle neoavanguardie, di qua e di là dall' Atlantico. E l' ha puntata verso l' interrogazione continua del momento fondante della nascita. L' uovo, del resto, campeggia nel Grande aperitivo del 1964 - uno dei dipinti-manifesto della mostra del 2005 sulla Pop italiana curata da Walter Guadagnini a Modena - e ritorna in tantissimi lavori, fino alla drammatizzazione del parto nella performance del 1972 agli Incontri internazionali d' arte dove, invitato da Achille Bonito Oliva, Cintoli sfondò un sacco di iuta in cui si era fatto rinchiudere come un Houdini della body art. Tale è stato il Chiodo fisso di un artista che, al di là del dualismo di Eros e Thanatos, aveva un approccio vitalissimo e felice alla realtà, che trasmise ai suoi studenti (tra i quali c' ero anche io) sin dall' esperienza iniziata nel 1969 al Liceo artistico di Latina. Se il 1964 è l' anno del suo lavoro più celebre - il perduto murale pop per il Piper -, il 1969 lo vede allestire ben tre mostre-performance tese a coinvolgere il pubblico all' Attico di Fabio Sargentini( Annodare, Chiodo fissoe Colare colore ). L' anno prima era morto Pascali e c' era chi vedeva in Cintoli un suo erede. Ma l' eclettico marchigiano, rientrato nel 1968a Roma dopo tre anni passati a New York, opera un ulteriore scarto in direzione concettuale e situazionista. Dotato di acume critico (dagli Usa scrive per le principali riviste d' arte italiane), crea un alter ego: "Marcanciel Stuprò", libero anagramma di Proust, che contiene nel nome l' arcobaleno e nel cognome anche la parola stupor. Un marchio per firmare le azioni urbane e di mail-art più spiazzanti; ma anche le opere più drammatiche e inquietanti, come Aceldama, dove vita e morte perdono ogni grazia e pietas. Nel 1977 a Roma Cintoli pubblica una lettera di Stuprò che gli annuncia la propria morte. Lo seguirà l' artista stesso pochi mesi dopo - il 28 marzo 1978, a soli 42 anni, colpito da un aneurisma. Lasciando tantissimi lavori. E al suo doppio il compito di continuare a rappresentarlo attraverso le opere.

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